lunedì 31 gennaio 2011

Biutiful

In fremente attesa dell'uscita di Biutiful, il nuovo film di Alejandro González Iñárritu, uno dei miei registi preferiti, sono incappata in una delle immagini raffiguranti Javier Bardem. Per il mio modo di fare fumetti mi è utile allenarmi così: disegnare un volto, cercando di rappresentarlo fedelmente. Non che il risultato debba essere fotorealistico, l'importante è riconoscere la persona.
Ovviamente è normale filtrare con i propri occhi e la propria mente quello che si ha davanti, ma se si volesse provare a raccontare la vita di una persona che esiste davvero, l'allenamento fa bene.

Il divo in questione ha un viso molto particolare. Anzi, di profilo, alcuni tratti dei suoi lineamenti sarebbero più facili da osservare, ma mi piaceva anche l'espressione che aveva nella foto, con le tracce di sudore malato sulla fronte.
Ecco, mi sa che dovrò allenarmi ancora...

martedì 25 gennaio 2011

La storia del portafoglio

"Da quant'è che non esco di casa?"
… è una delle domande più ricorrenti che mi faccio, da qualcosa come sei mesi a questa parte…

Certo, ho avuto alcuni decisivi intervalli, ovvero: le vacanze estive siciliane; un matrimonio in data 11 settembre a Catania; una piovosa Lucca Comics; una vacanzina ad Alicante a fine novembre, a beccare in un colpo solo sorella e fratello; le vacanze di Natale, trascorse sempre in Sicilia.

Ad ogni modo, il mio stile di vita si è fatto sempre più casalingo, con una media di dieci ore di lavoro al giorno. E ogni tanto ci sono anche le urgenze. Non a caso, con mio sommo dispiacere, ho dovuto trascurare il blog: quante volte, ho iniziato a disegnare qualcosa, ho avuto l’idea per un post ma non c’è stato tempo per sistemare tutto in modo leggibile, fino a quando mi è sembrato assurdo raccontare qualcosa accaduto una settimana prima.

Il lavoro che mi tiene tanto impegnata è in primo luogo il fumetto TOP SECRET, il nuovo graphic novel, a cui sto lavorando insieme a Giuseppe… Il “nostro” fumetto.

Poi, ci sono i fumetti degli altri: le attività di impaginazione, computer lettering e lettering a mano, gli adattamenti - sulle immagini che comprendono scritte in lingua straniera, che devono essere trasformate e adattate alla lingua italiana (es. insegne e poster) – e talvolta anche la grafica degli interni e della copertina.

Appunto, dallo scorso giugno ho avuto un incremento di collaborazioni per i fumetti degli altri. È un lavoro che mi piace, poiché mi permette di osservare da vicino autori diversi, spesso con la soddisfazione di aver conosciuto in modo speciale un bel libro, e a volte un capolavoro.
D’altra parte, fino a quanto i libri non vengono pubblicati, la riservatezza è d’obbligo: così, parlo soltanto adesso del fatto che ho iniziato a collaborare anche con Rizzoli Lizard, curando gli interni della nuova edizione di
Blankets, e svolgendo un lavoro al completo – copertina compresa – di Garibaldi e di Li Romani In Russia, un graphic poem (non conoscevo questo termine prima di averlo letterato) che mi ha stupito e commosso.

A metà ottobre ho corso il rischio di iscrivermi a un corso breve di illustrazione alla scuola di fumetto del Castello Sforzesco di Milano. Il mio piano era di migliorare le mie qualità di disegnatrice, concentrandomi sulla forza di un’unica immagine, e acquisire un po’ di sicurezza nell’uso del colore. Inoltre, la frequenza del corso – per me, lunedì e martedì h 20/22 - avrebbe dovuto costringermi a uscire di casa verso le 18.30, prendere il treno, la metro e poi l’autobus fino alla scuola. Dunque, uscire un quarto d’ora prima del termine delle lezioni, fare una corsa fino alla metro, e pian piano tornare a Pavia, entro le 23.
Infine, a volte avrei potuto sfruttare l’occasione dell’andata a Milano per sbrigare qualche eventuale altra faccenda, solitamente di lavoro.
Il rischio sempre pronto dietro l’angolo era che fossi troppo impegnata o esausta per recarmi al corso, per non parlare delle assenze dovute ai miei spostamenti per Sicilia & co. Come volevasi dimostrare, mi sono assentata spesso per urgenze di lavoro, mentre se ero SOLTANTO esausta ma abbastanza libera da altri impegni, di solito facevo uno sforzo e andavo a Milano.

Di fatto, a volte ho creduto di essere diventata una sorta di semidisadattata alla vita fuori da casa mia, ma non mi sono mai fatta sopraffare da questa sensazione.

Tranne una volta, lunedì scorso. Questa sarà la volta che racconterò di notizie non esattamente “fresche”…


Lunedì 17 gennaio sono uscita di casa un po’ prima del solito, per un appuntamento di lavoro a Milano PRIMA del corso di illustrazione. Ero rimasta incollata davanti al monitor del computer fino all’ultimo momento, avevo buttato dentro la borsa anche il mio beauty case tascabile e poi ero schizzata via alla stazione di Pavia a prendere il treno delle 16.35. Sono passata dall’edicola della stazione, ho acquistato due biglietti ferroviari e un giornaliero per la metro, tenendo contemporaneamente fra le mani guanti, cappello e portafogli, ma assicurandomi di non farmi cadere nulla dalla borsa. All’ora stabilita, il treno è partito puntuale. Io stavo seduta, in uno scomparto molto stretto, a riprendere fiato e a congratularmi con me stessa per avercela fatta ancora una volta a non perdere il treno. Come spesso mi capita, ho tirato fuori uno dei miei piccoli album da disegno “da viaggio”, ma poi ho deciso anche di cercare fra i miei appunti del corso che cosa avevamo fatto il 13 dicembre – avevo alle spalle 4 assenze di fila.

Quando il treno è giunto a Milano Rogoredo, sono passata dal bagno della stazione per pettinarmi e truccare un po’ i miei occhi stravolti. Poi, sono uscita dal bagno e, continuando a camminare in direzione della metro, ho cercato nella borsa il portafoglio, con l’intenzione di recuperare il biglietto.

Niente.

Una vampata di calore sulle guance. Mi fermo, controllo meglio.

Niente.

Torno subito in bagno, niente. Già che sono lì, svuoto la borsa di Mary Poppins da tutto il suo contenuto – appunti, album, portacolori, gomme, due cellulari, beauty case, bottiglietta d’acqua, chiavi di casa, portatabacco, occhiali da sole, hard drive (per il mio appuntamento di lavoro) – e capisco che manca per certo il portafoglio all’appello.

Comunque, quando esco dal bagno ancora non posso crederci, così svuoto d’accapo la borsa su una panchina, e allora mi capacito definitivamente che ho perso il portafoglio.

“Dev’essermi caduto sul treno. Sono sicura di averlo rimesso nella borsa, quando ero ancora Pavia… o no?”

Vado a cercare qualcuno del personale delle FS che possa aiutarmi a rintracciare il treno da cui sono scesa, diretto a Milano Centrale. Attraverso una finestrella vedo un impiegato seduto alla scrivania, con computer e tabulati su cui è assorto. Busso, faccio segnali, forse ispiro pietà. L’impiegato si alza, è un uomo alto con i capelli brizzolati e gli occhiali, il cui aspetto mi ricorda vagamente Sergio Brancato, un critico di fumetti. Dopo avergli spiegato la situazione, lo vedo muoversi con pacatezza ma determinazione, contattando qualcuno a Milano Centrale che possa controllare i vagoni del treno incriminato.

Abbassa la cornetta del telefono, mi comunica che lo richiameranno a minuti.

“Può andare in sala d’attesa, Le faccio sapere appena possibile…” i suoi modi sono sempre cordiali ma temo la mancanza di un suo coinvolgimento emotivo.

“No, grazie, non ho freddo, preferisco rimanere qui” fuori, con la nebbia che mi impedisce di vedere con chiarezza, mi fumerò una sigaretta per calm

armi e farò finta di non spiare le sue mosse.

“Sì, ma scusi, la finestra devo chiuderla, c’è corrente”.

Aspetto. Nel frattempo, nella mia testa faccio il punto della situazione. “Con me ho solo un biglietto del treno già timbrato. Che faccio se non trovano il portafogli? Secondo me, comunque, non lo troveranno. È troppo facile che l’abbia già preso qualcuno. Due sono le possibilità: o l’ha trovato un disgraziato o un’anima pia. Nel portafoglio ci sono i miei biglietti da visita col numero di cell. Solo nel caso l’abbia trovato l’anima pia, riceverò una telefonata entro quindici minuti, sennò addio documenti e bancomat. I soldi, chissenefrega, erano solo trenta euro.”

Attraverso la finestrella, vedo l’impiegato rispondere al telefono, e poi voltarsi verso di me con uno sguardo che lascia poco alla speranza. Abbassa di nuovo la cornetta, mi dice qualcosa scuotendo la testa, muovendo le labbra e facendo gesti, poi torna a lavorare. Nessuna buona notizia, è ovvio, ma io non capisco il labbiale. “Che cos’è che ha detto? Mi ha comunicato che non hanno trovato niente, e adesso torna alle sue scartoffie come se io non esistessi più?... Ma come si fa una cosa del genere? Bè, qui a Milano è possibile… Ma no, non ci credo!...”

Rimango indecisa sul da farsi per qualcosa tipo un minuto, poi busso di nuovo. Il tipo si alza, apre la finestra, e mi spiega che gli hanno detto di pazientare ancora un po’, stanno cercando il portafogli, telefoneranno ancora fra qualche minuto.

“Sono una disadattata” ecco che arriva l’ondata dei pensieri inutili “Sto a casa dalla mattina alla sera per giorni, e appena esco combino delle cazzate. Finalmente avevo guadagnato qualche ora di tempo libero fra oggi e domani, e ora faccio questa stronzata di perdere il portafogli. Ma perché? È una punizione? È un segnale? Devo riflett

ere su come gestisco la mia vita?”

Non avevo perso il portafogli, prima di quel giorno. Certo, me l’avevano rubato, due volte, a Catania. La prima, fra la folla delle bancarelle della fiera, sfilato dalla borsa. La seconda volta, la borsa mi fu scippata, una sera mentre ero a passeggio in via Crociferi, da due tipi su un motorino. In entrambi i casi fui molto fortunata, perché il maltolto venne ritrovato. Nel primo caso, il portafoglio era stato infilato dentro una cassetta dello scarico dell’acqua, in un bagno di un bar vicino alla fiera. Nel secondo caso – incredibile! – la borsa venne ritrovata da un’amica di Giuseppe: eravamo andati a cena a casa di questa ragazza, e lei aveva notato la mia borsa. Qualche giorno dopo, la riconobbe, per terra, davanti al portone, abbandonata dai rapinatori, che avevano preso soltanto soldi e cellulare. Quando arrivai anche io sul posto, riuscii a ritrovare perfino la scheda del cellulare.

“Signorina, mi spiace” l’impiegato interruppe il flusso di ricordi “Non hanno trovato niente”.

Ecco, la fortuna nella sfortuna doveva finire, prima o poi. Con molta dignità, cercai di raccogliere le forze per ringraziare, comunque. Poi, però, c’era il problema che ero completamente a secco. Chiesi all’impiegato la cortesia di un prestito di appena dieci euro, con la promessa che glieli avrei restituiti l’indomani. L’anima pia si rivelò per quello che era veramente, e mi diede una banconota da venti, senza volere né nome né numero di telefono.

Congendandomi con tante altre belle parole, me ne sono andata al mio appuntamento di lavoro.

Durante il breve tragitto, continuavo a sentirmi davvero l’essere più inetto della Terra. Appena possibile, ho chiamato Giuseppe. Era già passata circa un’ora. Anche lui, nel suo piccolo, mi ha aiutata, recandosi alla stazione di Pavia per testare i colpi di fortuna su quel fronte, invano.

Ero alla sede della ReNoir, a consegnare un lavoro di lettering. “Finisco qui e poi vado personalmente a Milano Centrale, chissà…” pensavo, quando mi squilla il cellulare. Il numero era sconosciuto, rispondo. “Parlo con Paola Cannatella?” ascolto una voce femminile con uno strano accento, che mi ha fatto supporre - mi vergogno un po’ a dirlo - che fosse straniera. Ad ogni modo, il cuore mi è balzato, sapevo cosa stava per dire. “Ho trovato il tuo portafogli”!

Era una madre di famiglia, originaria di Agrigento. Si chiamava Milena, ed è balzata in cima alla lista delle anime pie incontrate nella mia vita. Aveva trovato il mio portafogli per terra a Gallarate, in provincia di Varese. A parte i soldi, c’era tutto.

“Lasci il tuo numero di cellulare nel portafogli?” mi ha chiesto Giuseppe, quando gliel’ho comunicato.

“Sì, certo, così se qualcuno lo trova…”

“Ma non si deve fare. E se poi ti capita un pazzo che inizia a tormentarti di telefonate?... Una volta, a mia madre è successo. Ha perso il portafogli, e c’era questo tipo che la chiamava e la insultava…”

Ma io continuerò a fare come ho sempre fatto.

Il giorno dopo, io e la signora Milena ci siamo incontrate fugacemente alla stazione di Gallarate, a ora di pranzo. Teneva per mano una bambina più o meno di sette anni, e nell’altra mano stringeva il mio portafogli da uomo. Non ho potuto offrirle neanche un caffè, è dovuta andare via dopo un minuto.

Dopo, è stata la volta dell’impiegato alla stazione di Milano Rogoredo, a cui ho restituito i soldi che mi aveva prestato. Quando gli raccontai la storia della signora di Agrigento, lui mi disse che era originario della Calabria, accompagnandosi con una delle superfrasi tipiche di noi emigrati: “Se non ci aiutiamo fra di noi, che siamo del Sud…”

Sul treno, iniziai a disegnare a matita i volti dei miei due infarti. Nei giorni successivi, li ho ripassati a penna e li ho colorati, così, per allenarmi un po’ col colore. Non pensavo fino a stamattina, che li avrei messi sul blog. Ma si deve pur iniziare di nuovo a sentirsi meglio.